“Il più grande furto della storia”, lo ha detto la consigliera dell’Onu per le donne Anuradha Seth, commentando il Rapporto dell’Onu sul gap salariale uomo-donna intitolato “Lo stato della popolazione nel 2017”.
Un Rapporto forte che racconta una disparità di genere in tema di retribuzioni agghiacciante. Secondo i dati forniti dallo studio, le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Una disparità non più sostenibile. Dati alla mano, una donna guadagna in media 77 centesimi, laddove un uomo guadagna 1 dollaro. E il futuro non fa ben sperare: il gap migliora lentamente e secondo l’Onu, in assenza di azioni forti, ci vorranno oltre 70 anni per colmarlo.
Cosa aggrava il gap salariale?
Tanti i fattori. Dalla minore partecipazione al mercato del lavoro alla mancata retribuzione per il lavoro domestico, dalla discriminazione alla sottovalutazione del lavoro delle donne. E il gap salariale si acuisce con l’età e in presenza di figli. Secondo le stime, ad ogni nascita le donne perdono in media il 4% del loro stipendio rispetto a un uomo, i padri invece vedono il loro reddito crescere del 6%. Ma tra i paesi sussistono differenze rilevanti, anche se le metodologie usate dalle diverse organizzazioni non sono omogenee.
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“Non c’è un solo Paese al mondo nel quale le donne percepiscono lo stesso salario degli uomini”, ha spiegato la Seth. Tuttavia, ci sono delle differenze importanti. Tra i membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ci sono Paesi con una differenza inferiore al 5%, come il Costa Rica o il Lussemburgo, e altri con un divario fino al 36%, come la Corea del Sud.
L’Italia e i paesi europei a confronto
L’Italia è il paese dell’Unione Europea in cui la differenza di stipendio è più bassa. Secondo dati Istat di qualche mese fa, le donne guadagnano il 5,5% in meno degli uomini. In Germania il divario è del 15,7%, nel Regno Unito arriva fino al 17,1%. In Giappone il gap è al 25,7%, negli Usa al 18,9%.
Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, nel 2015, fa parte della popolazione attiva il 76,1% degli uomini, ma per le donne la percentuale scende al 49,6%. Le donne, inoltre, dovrebbero lavorare tre mesi in più rispetto agli uomini per colmare il gap salariale. Ma se i numeri sono importanti, è importante sottolineare che i dati italiani hanno bisogno di una specifica. Secondo la statistica Linda Laura Sabadini, noi avremmo un differenziale basso di retribuzioni tra uomini e donne solo perché le donne con basso titolo di studio non sono entrate nel mondo del lavoro, e quindi non fanno parte della statistica. Cioè il nostro Paese, che soffre un’altissima disoccupazione delle donne rispetto agli altri Paesi Ue, ha tra i numeri un più basso campione di donne e tutte con un’alta istruzione, le sole che lavorano.
Quali sono gli interventi necessari a favore della parità salariale?
Secondo l’Onu gli Stati dovrebbero portare avanti politiche in favore del part-time e che facilitino i congedi parentali e maggiore assistenza per l’infanzia.
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Non sono mancate le reazioni delle forze sindacali, poche a dire il vero, quelle delle forze politiche. “Fino a quando non ci sarà una parità anche dal punto di vista economico, non potranno esserci pari opportunità né vera autonomia”, ha commentato in una nota il segretario generale della Uil Carmelo Barbagallo. “Per superare questo risultato – sostiene – si può agire su molte leve, a partire da quelle culturali e formative. Ma, da un lato, il fisco e, dall’altro, la contrattazione restano gli strumenti migliori, soprattutto in un Paese come il nostro, per porre rimedio a tali contraddizioni. La Uil chiederà un sistema fiscale più leggero per salari e pensioni più pesanti, nell’ambito di una riforma che possa contribuire anche al superamento di questo divario di genere. Inoltre, a livello di contrattazione, si tratterà di implementare forme di conciliazione vita-lavoro, che aiutino le donne sul fronte dell’occupazione e del reddito”, conclude Barbagallo.
“Le donne continuano ad essere l’anello debole del mondo del lavoro. Una situazione davvero inaccettabile”, ha detto dal canto suo la leader della Cisl, Annamaria Furlan sottolineando tuttavia che in Italia negli ultimi anni ci siano stati passi avanti “attraverso la diffusione della contrattazione a tutti i livelli”.
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