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maternità come problema sociale Taddei
La maternità come problema sociale: ce lo spiega Loredana Taddei, Cgil

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La maternità come problema sociale. Cambiare la società, migliorarla, ridurre le disuguaglianze di genere è oggi una priorità, che riguarda tutti, uomini e donne.

“ll principio di parità fra uomini e donne, e il principio di non discriminazione, sono principi profondamente ancorati alla nostra Costituzione. Basterebbe applicarla”, ci ricorda Loredana Taddei, responsabile nazionale Cgil delle Politiche di Genere. Ma di diritti spesso calpestati si tratta quando si parla delle “altissime percentuali di part-time involontario” e delle “inadeguate politiche di conciliazione”, prosegue la sindacalista.

Quanto i costi della maternità ricadono sulle lavoratrici?

Moltissimo! Specie se sono sole o a basso reddito. I padri che lasciano il lavoro dopo la nascita di un figlio ci sono, ma in misura ridotta. Troppo ancora inadeguate le politiche per la conciliazione, c’è poi la necessità di mettere in campo maggiore welfare pubblico, maggiori servizi. Bisogna considerare la maternità come problema sociale. Basti pensare che secondo l’Istat, in Italia ci sono 22,5 posti in asilo nido ogni 100 bambini tra 0 e 3 anni. Ben al di sotto dei 33 posti indicati come obiettivo strategico dalla Unione Europea.

Quali le soluzioni possibili?

Innanzitutto, declinare il tema della responsabilità sociale di impresa affrontando la maternità non come una questione privata o come un costo da comprimere, ma come un valore sociale. Abbiamo una politica che fa fatica a parlare di donne e di lavoro, si parla ancora di “mamme”, come negli Anni ’50.

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Cosa ci si aspetta dallo Stato?

Dallo Stato ci si aspetterebbe l’incentivo e la promozione di politiche economiche e sociali per chi decide di avere un figlio. Tenendo a mente che i figli si fanno, oppure no, per scelte di vita. Senza contare che per fermare il crollo demografico non bastano i bonus bebè, ma servono investimenti e nuove strategie.

Come spiegare agli uomini che la maternità non è una questione privata?

Sarebbe necessario innanzitutto che il tema rientrasse prioritariamente nell’agenda di governo, per passare finalmente dalle suggestioni ai fatti. Le conseguenze di questo vuoto politico e del disinteresse generale sono tutte in questi dati che vorremmo non dover più commentare.

Disoccupazione femminile, possiamo parlare di una causa storica?

Il nostro mercato del lavoro soffre storicamente di una bassa partecipazione delle donne. Sulle donne si sono scaricati maggiormente i costi di questa lunga crisi, aumentando le differenze tra donne del nord e del sud del Paese, dove più acuta è la mancanza di un welfare pubblico e di opportunità. Le donne, dunque, scontano più di altri le discriminazioni e soprattutto le disuguaglianze crescenti. Non solo quelle tra uomini e donne, ma anche tra le stesse donne.

La maternità è un discrimine?

Continuiamo ad essere tra i paesi con minore partecipazione delle donne nel campo economico e tra quelli con maggiori disparità salariali nella classifica mondiale della parità di genere. La maternità continua a essere considerata il discrimine nell’accesso e nella permanenza nel mercato del lavoro. E i problemi di conciliazione dei tempi di vita, con la crisi sono aumentati. Nel nostro Paese più che in altri manca una vera cultura della parità di genere e gli investimenti necessari per favorire l’occupazione femminile, che non sia occupazione povera.

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Come legge l’aumento dell’occupazione femminile degli ultimi mesi?

Un aumento che si basa sulla bassa qualità di questa occupazione, sempre più debole e precaria. Con altissime percentuali di part-time involontario, che supera ormai il 60% e che contribuisce ad impoverire i salari delle donne, oltre che le loro pensioni future. Lo snaturamento del part-time ha finito per segregare ulteriormente il lavoro femminile: da una parte poco retribuito, dall’altra precario, a causa del dilagare dei contratti a termine.

La crescita è avvenuta al prezzo di un peggioramento della qualità del lavoro delle donne?

Sì, soprattutto con l’aumento delle professioni non qualificate. Il mercato del lavoro in questi anni è notevolmente cambiato, con l’invecchiamento della popolazione si registra ad esempio un forte incremento del cosiddetto lavoro di cura, con un boom delle badanti. Le stime parlano di un +84,8% dal 2008.

Però i dati Istat sull’occupazione femminile non sono mai stati così positivi…

Esatto, l’Istat abbia sottolineato che il tasso di occupazione delle donne (15-64 anni) a giugno abbia raggiunto il 48,8%: il valore più alto dall’avvio delle serie storiche (dal 1977). D’altro canto, i dati Eurostat ci dicono che l’Italia è agli ultimi posti nel confronto europeo, solo la Grecia fa peggio. Difficile dunque esultare e lunga la strada ancora da fare.
Lo dimostrano anche i risultati dell’ultimo Global Gender Gap Report 2017 redatto dal World Economic Forum: il divario tra uomini e donne nel nostro paese ha fatto piombare l’Italia all’82esimo posto nella classifica su 144 paesi. Siamo dietro alla Grecia. Il calo in un anno è stato di ben 22 posizioni.

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